Omelia XIX Anniversario - 23 Agosto 2013 - Suor Maria Alfonsa di Gesù Bambino

Omelia XIX Anniversario – 23 Agosto 2013

Monsignor Francesco Milito
Arcivescovo di Palmi

Omelia a cura di Mons. Francesco Milito

Ringrazio la Reverenda Madre Superiora Generale dell’invito che mi ha rivolto alcuni mesi fa a Palmi per questa sera nella Casa Madre, nella casa vostra, nella casa nostra per vivere insieme questo momento di grazia. In Lei e con Lei saluto tutte le figlie dell’Istituto, quelle qui presenti, quelle sparse nel mondo, alle quali siamo uniti con la nostra comunità di Palmi con quei legami che lei ricordava, tra il santo fondatore e la nostra diocesi. Saluto insieme ai colleghi tutti i confratelli qui presenti, qualcuno di loro più conosciuto, più amico, come Don Frattallone. Ciò mi permette di dire quanto questa Serva di Dio sia carissima a tutti. Quando i sacerdoti si trovano insieme per celebrare eventi così particolari, lo sappiamo, non è per fare un favore alle suore, ma perché si è conosciuta una figura eccezionale e si desidera condividere la gioia, il momento di grazia di questo evento, grazie alla vostra presenza, che permette l’unione di questa preghiera. Ma un saluto particolare va a tutti voi , qui stasera, alle varietà di coloro che esprimono l’appartenenza a questa grande figura e con esse dite, com’è vero che, al di là della morte la vita vince sempre e quando la mano di Dio si pone su una creatura eletta questa mano si estende come ombra lungo il corso degli anni e forse anche dei secoli, per affermare che le cose vere, le cose autentiche sopravvivono, anzi vivono in chi ci crede. E vi confido il mio stato d’animo: in mezzo a voi, soprattutto in mezzo alle suore, c’è chi ha conosciuto e servito Sr. Maria Alfonsa, come Sr. Elsa, che lo ha fatto per 23 anni, come tanti di voi hanno imparato a conoscerla ed anche ad amarla, con un contatto diretto, l’esperienza cuore a cuore con una persona e ne hanno conosciuto il segreto. Quando però questa conoscenza avviene attraverso gli scritti e le riflessioni, certamente se ne viene attratti, ma è un’attrazione che in fondo si fonda sulla fede di chi ha studiato, ha sistemato le cose e ce le presenta e noi le accettiamo perché sappiamo che sono ben fondate sulla storia, sull’esperienza. Che cosa questa figura ha suscitato in me in questi mesi di riflessione su di Lei? Ecco cosa voglio comunicare a voi. 

Una prima scoperta che Lei ha fatto lentamente, protesa com’era ad una vita dinamica di missionaria, fu quella di impegnare la vita attraverso il dinamismo delle opere, l’impegno di compiere ciò che all’interno dell’Istituto si potesse fare, non solo in patria ma oltre oceano. E questa avventura aveva appena incominciato a viverla ma evidentemente il Signore che conosce in ognuno di noi, giorni, mesi, finalità, prevedeva ben altro per Lei. E sappiamo che questa esperienza durata non più di 7 anni, l’ha vista ritornare in patria, a causa della malattia che l’avrebbe portata alla morte, e che questa doveva essere per lei la sua vera missione. Non oltre oceano, non in attività di dinamismo ma in una apparente, per così dire paralisi, lenta, progressiva, inarrestabile, che è diventata, invece un dinamismo interiore fortissimo. 

E qual è stata questa scoperta? Capire che la sofferenza per Lei era un dono di Dio. 

Si può condividere quest’affermazione? Che la sofferenza è un dono? In genere i doni che facciamo o che amiamo ricevere sono sempre nell’addizionalità di qualcosa che fa piacere, perché sappiamo che facendo un dono, facendo un regalo, se conosco in qualche modo i gusti dell’altro, questo ne è contento e lo conserva a distanza di tempo come espressione del mio affetto, della mia sensibilità. A nessuno, sano di mente, delicato, verrebbe in mente di fare un dono che all’altro dispiacerebbe, perché sarebbe un’offesa, sarebbe un dispregio, non sarebbe un atto di amore. Com’è possibile pensare allora che la sofferenza venga scoperta come un dono?

In Dio, e questo è proprio dei santi, delle anime elette, si riesce, non facilmente, ma lentamente a capire che i doni, che il Signore fa sono, intanto proporzionati alla possibilità che abbiamo di accettarli e poi alla fiducia in Lui che ce li concede come privilegio. 

Ecco perché il Signore non mette alla prova tutti allo stesso modo, non a tutti fa doni così particolari, diremmo, così inusuali, così inaccettabili secondo la logica umana, se non a quelli  che possono entrare in questa dimensione, farla propria, e diventare orizzonti di tutta l’esistenza. Sr. M. Alfonsa scopre la sua sofferenza durante quell’adorazione che ha fatto del Signore tutta la sua vita e riesce a comprendere che questa vita, il Signore, da Lei la vuole, in questa particolare direzione che si chiama sofferenza come atto di amore, del Creatore, del suo Signore. 

Non si può condividere quest’affermazione se non c’è da parte di chi riceve questo dono, una sintonia precisa e perfetta con colui che sono. E colui che dona è il Signore Crocifisso e proprio perché quest’esperienza l’ha vissuta come nessuno, ciò fa capire il senso di questo dono e cioè la partecipazione piena alla sua stessa dimensione umana, come a dire: <<ti faccio dono di ciò che ho vissuto, di ciò per cui sono venuto, di come e perché sono morto>>. Non può esserci un dono più grande. 

Ci possono essere consolazioni, motivi di gioia, tante cose che il Signore semina nella nostra vita perché l’esistenza, difficile com’è, ci venga resa più accettabile. Ma un dono così radicale, solo chi ha la grazia di capire, può accettarlo. Suor Maria Alfonsa questo l’ha capito!

Ed è per questo che ha considerato la sofferenza come un dono, dono grande, dono permanente, non di passaggio, o di qualche anno della vita, ma di tutta l’esistenza. 

Pertanto nelle sue riflessioni e nei suoi scritti, è permanente questa specie di paura, di timore che, il Signore in qualche modo, si pentisse di averle fatto questo dono e potesse decidere di toglierlo. Invece di tirarsi indietro, tanto più la sofferenza del corpo era terribile, tanto più in Lei, la paura di perdere questo dono si faceva più intensa, e chiedeva al Signore di lasciarglielo. 

Questo dono può essere dato a tutti, non necessariamente ad una persona consacrata, ma in Suor M. Alfonsa il dono è stato fatto ad una persona consacrata e questa persona consacrata ha definito questo dono con un Sì già dato quando non poteva immaginare, quanto nella vita le sarebbe capitato. Ha scoperto il dono della sofferenza come vocazione. Anche qui, ci sono parametri che generalmente noi non accettiamo; se la vocazione è questo dinamismo interiore che nasce dall’attenzione di Dio, di natura Sua, ci immaginiamo, crediamo, vogliamo che sia sostanziata di atti, di gesti, di imprese, di progetti, portati avanti in nome di Dio, di far sì che siamo impastati nella storia, per un fine, per realizzare qualcosa. 

E com’è possibile allora che si possa scoprire la sofferenza come vocazione, cioè come chiamata con la quale vivere, come progetto che Dio ha su di te?

La risposta sta proprio qui. 

Se nella vita Dio ha pensato che la realizzazione piena significa soffrire con Lui, tu capisci che questa è una chiamata verso questa direzione. 

Suor M. Alfonsa l’ha capito lentamente ed ha compreso allora, che all’interno della sua vocazione, questa era quella specifica, un po’ se volete, quasi sulla stessa lunghezza d’onda di una santa che lei amava molto, Santa Teresina di Lisieux. Quando in quel suo travaglio interiore tentò di capire quale fosse nella Chiesa la vocazione più ampia, Lei dai desideri immensi, ha avuto questa grande illuminazione!

<<La mia vocazione sarà l’amore, e nell’amore della Chiesa e della Madre Chiesa io sarò tutto>>

La sofferenza come vocazione ancora una volta, diventa per la nostra Serva di Dio il modo concreto di capire come da Lei il Signore vuole solo questo. E non solo lo accetta, ma lo fa diventare stimolo, sostegno di tutte le sue giornate. E poiché è proprio delle vocazioni autentiche essere attrattive di per sé, si comprende come dinanzi a questa figura, lentamente, le persone che l’hanno conosciuta in questa Casa si sono avvicinate, attratte da tanta ricchezza interiore. Come quando in un’attività apostolica concreta, un pastore, un sacerdote, un diacono, un catechista, una persona impegnata è talmente brava che attiri a sé, lo stesso vale per quella sofferenza, capace di attirare perché è stata scoperta come vocazione, una sintonia anche qui, tra chi vive e chi sente che la sofferenza accomuna tutti ed ha da imparare qualcosa da quest’anima eletta. E’ per questo che la sua vocazione diventa magistero di vita, è per questo che si avvicinano a Lei tante di quelle anime desiderose, non solo per una visita, quanto di riceverLa come aiuto per la propria esistenza. Ma questa vocazione scoperta come dono, scoperta come sofferenza riceve un timbro, questa volta veramente profondo, l’appartenenza all’Istituto di cui faceva parte, pertanto Ancella Riparatrice, Serva dell’Amore di Dio. 

Il tema della Riparazione nell’ascesi e nella liturgia cattolica si è fatto strada lentamente nel corso degli anni, ed in tutti i secoli, soprattutto nell’Ottocento ed è stato uno dei temi più forti. 

Tanti fondatori e fondatrici di congregazione hanno fatto della Riparazione lo specifico del proprio Istituto. 

Non sullo sfondo, ma sulla grande abilità che il primo a rimettere le cose a posto con Dio Padre è stato Gesù, con la morte e Resurrezione, c’è chi, da anima eletta comprende che deve collaborare non mettendosi al posto degli altri, ma impetrando per gli altri, soffrendo per gli altri, riparando per gli altri ciò che tanti altri guastano e cioè, questo rapporto bello della corrispondenza di Dio, ecco perché ci sono state e ci sono anime sante che intendono riparare in questo mondo, mettersi sulla scia di chi rinnega il Signore, ama il Signore, per loro. 

E non è poco questo perché, può capitare tante volte alle anime consacrate, certamente, di essere attratte da una forma di vita specifica in istituti e congregazioni. Ma poi di fatto vivere come se queste cose fossero delle attività esterne. 

Quante volte tra i religiosi e religiose, un travaglio spirituale, non è capito, non è compreso, se non lo si centra nel carisma particolare. Staremo per dire: <<ma riusciremo a comprendere un’ancella riparatrice se non ha di che riparare con la sua vita, se non vive in pienezza tutto ciò che le capita, mandato dal Signore, tutto ciò che le serva perché le faccia vivere in profondità l’appartenenza a questo carisma, da cui un giorno è stata attratta>>?

Ecco perché non può esistere tra le suore, tra i membri di vita consacrata maschili niente di estraneo alla propria vita, su quella strada che, con la grazia di Dio, si è scelta. Se sei salesiano, se sei gesuita, se sei domenicano, se sei francescano devi ricordare che, se nella tua vita, questa dimensione, non la cogli ogni qualvolta nello specifico che ti viene chiesto, tu rischi di non vivere in pienezza la tua vocazione. 

Ed è per questo che la Riparazione sull’onda, sulla forza della sofferenza come dono, come vocazione, diventa per Lei, la forma più piena di essere alla perfezione un’Ancella Riparatrice. 

Questi sono i frutti di una figura di una figura che, per quasi metà della vita e anche più, soffre in modo terribile. Possiamo dire che è una persona riuscita, è una religiosa perfetta soprattutto perché Lei riesce a capire che la sofferenza è un dono, che è una vocazione, in questo caso, come Ancella Riparatrice e non si chiede, al contrario: <<ma perché proprio la sofferenza come dono e vocazione e non un’altra cosa, o Signore, puoi chiedermi tutto, ma perché mi provi su questo?>>

La sofferenza, come dono e vocazione, è un Sì, quando c’è la grazia di Dio, assoluto ed indiscutibile.

E’ facile offrire al Signore come dono, come vocazione le cose che ci piacciono e ci gratificano; anche questo è dono Suo, ma quando diamo con il suo Amore, con la sua forza, la sofferenza, di nostro non ci può essere niente, perché siamo naturalmente portati a mettere da parte la sofferenza. Il cristianesimo non è la religione della sofferenza, ma della sofferenza redentrice, dunque della Resurrezione e il Cristianesimo, non insegna ad avere nella sofferenza lo scopo specifico della professione di fede. Tutt’altro, è l’amore di Dio, l’amore del prossimo. Lo stesso Gesù, per amore ha fatto quello che ha fatto lungo tutta la sua esistenza, non solo quando ha sofferto. Quando ci si offre a lui nella sofferenza, quando si è soli con il Signore sulla croce, la sofferenza è purissima offerta di amore, è purissimo dono, è veramente quella purificazione perfetta, totale, forte. Non abbiamo bisogno di crearci condizioni che non esistono o che vorremmo virtualmente, occorre che si viva la ferialità, la quotidianità, secondo gli stati di vita, le situazione nelle quali ci troviamo, quelle che ci sono poste davanti. Ne abbiamo avuto un esempio bellissimo da quel quadretto, di una soavità immensa che abbiamo visto stasera attraverso l’ascolto del brano tratto dal libro dei Giudici. 

Che belle figure quelle di Rut e di Noemi!

Libertà nell’una, libertà nell’altra, rispetto dell’uno, rispetto dell’altro, alla fine resta ciò da cui si era partito, l’amore autentico verso una persona che non può restare sola e che si fa tutt’uno con l’altra persona amata, questa è la vita concreta, impegnata secondo il disegno di Dio. 

E ciò che significa?

Rut abbandona le sue certezze, la sua patria, i suoi parenti ma non è un abbandono sofferente, è un abbandono per amore, come quando a Gesù viene chiesto quale sia il primo comandamento, il secondo ricorda ciò che, già, Israele sapeva, perché ogni giorno ripeteva a sé stesso come oggi: <<Shemà Israel>>…ascolta

I nostri Santi ci dicono allora, questo:

Che se l’amore è l’essenza della vita della sequela, l’amore nella sofferenza è la forma più alta e qui, allora, tutti noi presenti, dovremmo dire:

<<ma in questo momento di Celebrazione Eucaristica, cioè di preghiera più alta che esista, in quella sofferenza di Gesù, trasformata in purissima offerta al Padre, per la nostra salvezza, in questa Eucaristica, le sofferenze di ciascuno di noi, quali sono?>>

Quelle fisiche, quelle morali, quelle sociali, quelle dei rapporti. Se riusciamo a capire come la viviamo, come le valorizziamo, come ne facciamo un dono per la nostra santificazione, qualcuno forse scoprirà la vocazione ad essere martirizzato per gli altri?

Solo il Signore è la sintesi più alta di una sofferenza data, recepita e aiutata e, allora capite che a distanza di anni dalla sua morte, sr. M. Alfonsa, come se fosse presente qui sulla sua sedia a rotelle, ci interpella, ci trattiene, ci fa riflettere su queste cose. Che questa ricorrenza diventi un ricordo annuale, una specie di spinta a capire e, come Lei, a valorizzare questa grande realtà. 

Quale sarà il frutto bello?

Lo vorrei vedere nella Santa ricordata dal calendario liturgico quest’oggi, questa patrona dell’America latina, il cui nome, già di per sé, esprime bellezza, Isabella e viene cambiato per la sua bellezza in Rosa, per dire come, ciò che il Signore dona, diventa anche attrazione per gli altri, ma di Santa Rosa da Lima, non ricordiamo il nome, ma quello che ha fatto, il nome è diventato veramente una rosa, un profumo, con tutte le spine che le rose portano con sé, quando questa sera ci sarà per voi, ancora una volta, questo gesto molto bello, vi prego, fate si che la rosa che appassisce per sua natura non appassisca in voi, che ognuno di voi sia una rosa offerta al Signore, così da fare una specie di rosete, che al Signore offra, la bellezza dell’amore, il profumo dei petali, e allora in questa sintesi di una Sorella Maggiore, che ha vissuto, ha compreso, ha fatto proprio il disegno del Signore, questo nostro confronto con Lei e questo aiuto che ci viene dato dalla Parola, possiamo ben dire che, anche questo 23 agosto, di molti anni dopo rispetto alla Sua morte, diventa per noi un appuntamento con Lei, con noi stessi e con il Signore. 

In questa città, per la Sicilia e per il mondo, possa sentirsi attuale, vivo e sarà festa per sempre, perché è la festa dell’amore, e nell’amore tutti contiamo: Dio, noi, la gioia, il dolore, le singole persone, la comunità. Questo è l’augurio, questa è la prospettiva, la Madonna Santa che resta addolorata come patrona di chi soffre ci aiuti in questo cammino ed il Crocifisso resti la sostanza nei nostri giorni, nella speranza che, Risorto dalla Croce formi tutta la teoria che ci serve per affrontare cose così belle, così impegnative, ma possibili solo con l’aiuto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Amen. 

Messina, 23 Agosto 2013

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